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CRITICA

Modelli speciali

Auto, barche, motoscafi, aerei sono questi i "modelli" e le "modelle" speciali che posano per Livia Pertile, per una serie di ritratti che, nella loro spaesante oggettività, davvero mettono a nudo ciò che non ha forma: il desiderio, il sogno, la tentazione. Utilizzando la retorica pubblicitaria e cinematografica, insita nei suoi modelli, l'artista compone fotogrammi del presente, manifestati nella loro lucente banalità, per raccontare piccoli e più profondi racconti di vita comune.
Sono come ritratti del tempo, immagini della quotidianità che ci circonda e ci affanna, ci inorgoglisce e ci indemenzia; maschere visive del successo e del potere, della nuova estetica della perfezione, dietro le quali, come in tutti i ritratti, si nasconde un volto.
E', quella che mette in scena l'artista, una variopinta galleria di personaggi, ciascuno dei quali ha il suo nome, la sua storia da raccontare, la sua bellezza da esibire: quelli che si vedono sono i simboli del lusso, dell'ostentazione del benessere, del piacere edonistico e del consumismo che fanno parte dell'immaginario collettivo ma che, nel loro presentarsi come oggetti di culto reali, in sé contengono il veleno dolceamaro di una metafora esistenziale, alludendo così a qualcosa che non si vede. C'è, dunque, in questi dipinti, affidati a colori pieni e squillanti attraverso una resa pittorica quasi indifferente pur nella sua perfezione, un qualcosa che subito appare, ma anche un'idea che circola nascosta e allude a qualcosa di altro che non "appare" ma "è", come se l'artista padovana volesse catturare attraverso gli oggetti, ciò che non si vede. Sta qui, al bivio tra apparenza e realtà, il nocciolo della questione: nello stabilire cosa si mostra e cosa si cela; nel comprendere quale sia l'oggetto della rappresentazione visiva: la realtà degli oggetti con i loro significati simbolici o la metafora dei sentimenti?
La risposta sembrerebbe scontata. Si vedono auto, barche e aerei; non si vedono il desiderio, il sogno e la tentazione. I primi sono gli oggetti reali catturati dalla pittura, i secondi sono le metafore di concetti che non hanno forma. E così, a prima vista, quello di Livia Pertile potrebbe essere l'elogio e l'esaltazione del lusso e, spingendosi ancora oltre, del desiderio di lusso, la celebrazione acritica della modernità e dell'apparenza. Il mondo descritto sarebbe quello del lusso, degli optional a più non posso, delle griffe, dei conti in banca o delle cambiali al protesto, dell'avere piuttosto che dell'essere. Il discorso potrebbe chiudersi qui, ed invece è proprio da qui che bisogna partire per quell'avventura alla quale questa pittura invita. Così, se e è vero che è proprio degli stupidi, quando uno indica la luna con un dito, fissare il dito e non vedere la luna, proviamo a capovolgere il meccanismo percettivo, e dunque a considerare reale proprio la metafora esistenziale, e apparente piuttosto la realtà mostrata.
È questa, mi sembra, la strada da percorrere per comprendere non tanto l'intenzione dell'artista, quanto il risultato di una pittura che parla con un linguaggio chiaro, di grande modernità, capace di affascinare per la sua precisione e la sua raffinatezza stilistica e, al tempo stesso, di coinvolgere mentalmente per quelle sottili risposte che dà a interrogativi rimossi o, se si vuole, per quegli inquietanti quesiti che resistono dietro le sopite e inattuali domande.
Proviamo a capire perché tutto ciò é possibile ed anzi concretamente accade.

Quella di Livia Pertile, artista per vocazione, ma anche per destino, essendo cresciuta accanto alla madre, la nota pittrice Titta Rossi che in una cinquecentesca Torre Palladiana andava sfrenando la sua libertà immaginativa in enigmatiche composizioni ai confini del surreale, e che dal padre ha mutuato l'amore per le auto, è una pittura che in pieno si inserisce nell'attuale trend della neofigurazione che ormai da un decennio si è imposta sulla scena internazionale.
Si tratta di un ritorno alle immagini che la pittura ha compiuto non più isolandosi in una sorta di recinto orgoglioso, indifferente rispetto all'aggressione degli altri off-media espressivi (dalle performances alle installazioni, dai video alla computer art), ma accettando la sfida della modernità che si è imposta con i suoi linguaggi che vanno dalla pubblicità alla fotografia, dal computer ai fumetti, dalla televisione al cinema, dalle riviste in carta patinata, alla moda. È l'aspetto tipico dell'epoca attuale: se un tempo era la realtà a produrre immagini che poi venivano riprodotte, adesso sono piuttosto i creativi a produrre le nuove immagini alle quali la realtà si adegua. Così nell'epoca delle immagini (che, saturando la retina e la mente, hanno infartuato l'immaginazione) muta la scenografia dell'abitare il mondo, non più naturale ma artificiale, e con essa muta anche l'occhio per guardarlo.
Tutto ciò assorbe la più recente pittura metropolitana che volentieri si fa meticciare, anzi diventa essa stessa "meticcia", utilizzando tutti gli input e gli strumenti a disposizione, e così rendendosi più capace di interpretare il tempo presente. Una pittura, cioè, che non si isola dal mondo, inseguendo le nostalgie di una bellezza perduta né fugge lungo le vie di un naturalismo sentimentale e romantico, ma piuttosto si fa testimone e interprete della realtà contemporanea, bersagliata dalle immagini, dalle pressioni del consumismo e dell'apparenza. Si cala nel tempo dell'incertezza, fatto di spot, riflessi di vetrine, telefonini e carte di credito e soprattutto dai nuovi imperativi categorici della perfezione fisica, dell'opulenza, delle strategie di marketing, della nuova estetica della bellezza.
Proprio di questo si fa carico Livia Pertile, che si è imposta all'attenzione critica nazionale già nel 1994 quando, riscuotendo un grande successo, venne invitata alla Biennale Giovani di Venezia, e che tutto raccoglie nella qualità patinata delle sue opere. Di questa modernità l'artista usa i vocaboli ed i codici comunicativi, ma non per aggiungere la sua voce al coro, quanto piuttosto per costruire un suo discorso ironico e critico, distaccato e attento e così mostrare, della medaglia (ammesso che tale sia) il suo rovescio. Il suo intento non è quello di riprodurre passivamente gli oggetti, ostentando un'asettica bravura tecnica, né di perseguire la poetica iperrealista del "più vero del vero", ma piuttosto di ragionare sui meccanismi percettivi, di raccontare un malessere collettivo che ha le sembianze di una corsa sfrenata senza direzione, e di confessare un malessere individuale che nasce da un tempo che passa troppo in fretta.
Ed ecco la scelta dei modelli di cui fa un ritratto psicologico. Sono i simboli del lusso, del viaggio, dell'avventura, dello sfrenato appagamento, del desiderio, della tentazione, che è l'unica cosa alla quale non si può resistere. Da sempre le auto, uno dei più potenti miti della modernità e del progresso, sono state al centro dell'attenzione degli artisti: dagli entusiastici veicoli del futurista Balla che erano l'elogio della velocità, agli allarmati autocarri di Sironi che scuotevano le strade di deserte periferie protoindustriali, fino alla metallica e famosa Bugatti verde che mai Tamara de Lempicka ha guidato, e alle esperienze più contemporanee come è stato di recente documentato nella bella mostra "Drive" organizzata dalla Galleria d'arte moderna di Bologna, alla quale sono stati chiamati alcuni tra i maggiori artisti contemporanei per riflettere sul rapporto, a volte conflittuale e contraddittorio, con la tecnologia. L'auto, questa protesi tecnologica del corpo umano, scatola di metallo per la quale si è disposti a fare debiti e prestiti, così preziosa da non dover essere mai prestata (privilegio che condivide soltanto con le mogli, anche se c'è chi disattende l'uno e l'altro divieto), ha suscitato da sempre entusiasmi e incubi, desideri e frustrazioni, fino a porre oggi il drammatico quesito: è una nostra alleata che ci libera, favorendo la circolazione e gli incontri (si pensi agli sguardi e ai sorrisi inutili che ci si scambia nel tempo breve di uno scatto di semaforo) o piuttosto la nostra gabbia che ci isola impedendo ogni relazione?

Ma non è questo l'aspetto che interessa a Livia Pertile, quanto piuttosto la sua perfezione tecnologia, la sua bellezza di forma, il suo essere uno status symbol, la sua valenza di indicatore di un ruolo sociale. E non a caso le sue modelle non solo piccole car o semplici utilitarie, ma Ferrari, Mercedes, Bmw, Slk, Porsche, cioè solo ed esclusivamente auto di lusso. L'artista sembra trarle dai depliant pubblicitari in cui, grazie alla maestria dei fotografi, al sapiente gioco delle luci, all'ambientazione che sfrutta le infinite magie del computer e all'uso della carta speciale che al massimo rende l'immagine, questi oggetti del lusso, frutto a loro volta della creatività di grandi designer, si mostrano in tutta la loro seduzione. Di tutto questo la pittura di Livia Pertile è debitrice, dal depliant assorbendo il fascino indiscreto e insinuante, così come dai cartelloni pubblicitari l'impatto aggressivo e convincente. Nel compiere la già spiazzante operazione di trasportare in pittura ciò che non sembra essere oggetto di pittura, l'artista padovana ricorre da una parte all'armamentario iperrealista, usato in chiave strumentale (non vuole gareggiare con la fotografia, ma piuttosto con la sua capacità di fissare, attraverso l'istantanea, l'attimo di un tempo che scorre), e dall'altra all'impostazione della Pop Art rinvenibile nella enfatizzazione degli oggetti o di alcuni particolari. Ma fa ricorso anche ad altri artifici pittorici: al precisionismo da moderna fiamminga, capace di catturare (come accade nella "Porsche Caienne"), con virtuosismo, anche i particolari degli spruzzi d'acqua; alla visione riflessa che si può notare sulle fiancate dove si imprimono luci, ombre e bagliori (dunque la pittura mostra non solo ciò che si vede ma anche ciò che esiste altrove) e all'uso di colori brillanti e lucidi, tipici della colorazione che si pratica nelle fabbriche di auto, quasi a voler sottolineare una presa di distanza dall'oggetto rappresentato, una totale esclusione di qualsiasi coinvolgimento emotivo. Ed ecco questa pittura oggettiva e fredda, calata in una luce esplosiva priva di fonti, che, nel personalizzare questi "modelli speciali", al massimo si spersonalizza: tutto è reso con una esibita indifferenza che gareggia con la maestria del dipingere, con un solenne distacco che nel rendere "personaggi" le auto, al tutto esclude la presenza umana. Tranne che in un dipinto, in cui due auto, rigorosamente targate "Pertile" (questo è sintomo della presenza di "autoritratti") sfrecciano in direzione opposta, si incrociano solo per un attimo, ciascuna va per la sua strada. Eppure quell'attimo basta perché sull'auto gialla si imprima il viola dell'altra. Il dipinto si chiama "Incontri" ed è l'unico che, come in una confessione, contempla l'esistenza di una donna al volante. Quel riflesso fugace, quel volto di donna assorta nei sui pensieri, ci fanno capire che non più di auto si tratta, ma di storie umane, di possibili amanti, di desiderio, di tradimenti, di speranze e solitudini, di attimi di un esistenza che va troppo veloce, che non si ferma e tutto brucia dovendosi accontentare dell'eco, appunto del riflesso, di uno stato d'animo che sfugge, che il tempo cancella ma non guarisce.

Ma se ciò accade una volta, è possibile pensare che accada tutte le altre volte in cui queste auto sono apparentemente vuote, come quelle che in fila transitano sul Ponte che non c'è (augurale presagio) sulla magica e straordinaria distesa di acque e di cielo dello Stretto di Messina, o la Ferrari che assorbe un riflesso di Asiago, o le Porsche affiancate in un provvisorio e occasionale parcheggio, mute disposte l'una accanto all'altra. Si comprende così come gli incontri, i sorpassi, le fughe, le frenate e le accelerazioni, gli ammiccamenti e i reciproci riflessi tra le auto non sono che storie umane sì che le stesse auto, raffigurate nella loro lucente e attraente nudità di lamiera, sapientemente disegnate e colorate, possono anche essere interpretate come nudi di donna o nudi di uomo, al punto da immaginare una contrastata o felice storia di una donna che si chiama Mercedes e di un uomo, il cui nome è Martin. Aston Martin. Così l'artista, utilizzando proprio i simboli dell'indiscussa fede attuale (il lusso e il piacere) e servendosi della catturante bellezza delle auto, mette in moto un meccanismo visivo e concettuale che dà forma alla tentazione e al desiderio, dell'una e dell'altra mostrando l'inganno che sta proprio nella precarietà dell'apparenza, dietro la quale si cela l'inquietudine perenne di un'esistenza che di altri lussi smarriti sembra in cerca. Avvolto nella carta patinata Livia Pertile esprime il suo giudizio critico sul tempo presente, che personalizza una vita firmata e spersonalizza il destino dell'uomo.
La conferma del possibile capovolgimento percettivo, cioè del dito e della luna, arriva dalla folgorante serie dedicata alle barche a vela e alle regate. Esemplare mi sembra il titolo di un dipinto "Legati nell'anima", in cui alcuni motoscafi si lasciano cullare dalle onde alla rada. Dunque anche le barche hanno un'anima. La pittura esplode nella sua bellezza, fatta di ardite impaginazioni al limite dell'astrazione (co-me accade in "La mia Biennale"), di tagli fotografici di suggestivo impatto. Si impennano le vele dai colori irreali, tagliano la tela e giocano con l'azzurro del- cielo. Una luce innaturale, anzi a dir tutto artificiale, illumina queste scene marine e di regate. L'artista va per mare, ne racconta le avventure, guarda i motoscafi che riposano davanti all'illuminato porto di Cetara a Capri. Anche queste sono immagini da sogno, frutto di una sfrenata fantasia, ma popolate questa volta da una presenza umana straniante. Sono manichini, in qualche modo presi a prestito dalla produzione seriale dell'americano Mark Kostabi: non hanno volto, non hanno età, non hanno sesso, non hanno neppure colore, assorbiti come sono da quello dell'imbarcazione in cui si trovano. Sono il simbolo di una esistenza umana ormai espropriata non solo da ciò che va conducendo, ma da se stessa. Partecipano alle regate, si lasciano cullare dalle onde in un intimo colloquio (si veda "Io e te"), ma non si sa se abbiamo le capacità di aver coscienza di ciò che fanno. Sembrano esemplari di una nuova razza, più vicina ai robot disumanizzati che fanno ciò che si deve fare (risuona l'imperativo poco neokantiano della pubblicità: "La donna oggi non si può permettere di invecchiare',), ma non si rendono conto del perché. Ecco il nuovo popolo del lusso e del piacere contro il quale punta l'indice la pittura critica di Livia Pertile, quasi un invito a fermare la corsa priva di senso e a riscoprire il senso delle cose. Si vano così meglio precisando i contorni di ciò che si cela dietro l'apparenza, anzi i contorni della stessa apparenza di cui l'uomo contemporaneo si nutre fino all'obesità e, allo stesso tempo, dietro il moderno "sollen" che ci viene imposto, dietro la maschera al neon dell'uomo contemporaneo, si comincia a delineare il suo volto nascosto ma reale, il suo "sein" che reclama spazio. Uno spazio libero dalle false verità, dalla massificazione omologante e che ciascuno può cercare dentro di sé, in un diverso modo di rapportarsi con gli altri e con le cose. Così le auto e le barche, questi "modelli speciali" di cui l'artista fa il ritratto, dopo aver sedotto la vista, sembrano uscire di scena e lasciare spazio a quella metafora esistenziale (individuale e collettiva) fatta di desideri, di sogni, tentazioni e inganni. Da qui l'invito a compiere di nuovo un altro viaggio, non più in auto o in barca, rigorosamente extralusso, ma magari prendendo quello straordinario aereo che frontalmente ci aspetta sulla pista, all'una di notte. Certo è tardi ma, sembra dirci Livia Pertile, non è mai troppo tardi. Ed allora appare vero un vecchio proverbio cinese secondo il quale "non si può nascondere il fuoco con la carta". Neppure con la carta patinata.

Lucio Barbera

Livia Pertile

Potrebbe anche sembrare una facile battuta, ed invece é una previsione critica: con queste auto Livia Pertile farà molta strada. Di tanto sono convinto per due ottime ragioni: la qualità della pittura dell'ancor giovane artista padovana che dimostra di possedere il mezzo espressivo e la sua capacità di utilizzarlo in funzione di un preciso sviluppo menatale. cioé di un'idea. A dir in breve e tutto, Livia possiede già la mano e la mente che poi sono le uniche due armi di cui può servirsi la pittura.
Già il primo impatto visivo con le sue tele è indicativo della scelta operata dall'artista: quella di una figu­razione precisa, rigorosa, minuta, puntigliosa, quasi fiamminga si direbbe, se dir non si dovesse "iperrealista". È certamente questo l'ambito in cui la Pertile si muove e la sua scelta ci riporta a quel movimento dell'arte americana la cui data di nascita ufficiale può fissarsi al 1964, quando ad Albuquerque, presso I'Úniversità del Nuovo Messico, venne presentata la famosissima mostra "The Painter and the Photo". Riflettendo su quel titolo si comprende come ciò che innerva questa pittura non è tanto la capacità del mezzo di riprodurre la realtà (in tal senso iperrealisti furono già i fiamminghi e lo stesso spaesante Magritte), quanto il confronto diretto che si realizza tra pittura e fotografia quali possibili tecni­che della comunicazione di massa, nessuna delle quali, tuttavia, può dirsi assolutamente neutra.
Così come l'occhio fotografico (che ai suoi primi passi prendeva a modello la pittura) interpreta la realtà, allo stesso modo l'iperrealismo, che si riallaccia alla Pop Art, interpretando la realtà prende a modello l'occhio fotografico. Da ciò risulta evidente che la "retrocessione" della pittura ad un ca­rattere realistico e se si vuole accade­mico, secondo quell''accademismo che precedette la rivoluzione impressionista, punta solo "apparentemente" alla resa realistica. In altre parole, tanto più la pittura sembra fedelmente riportare la realtà, tanto più da essa se ne discosta, prendendone le distanze.

Ed é proprio quello che fa con maestria Livia Pertile che attualmente indaga il tema delle auto inserite nella natura e lo fa con una duplice e contrapposta intenzione: da un lato spersonalizza al massimo l’immagine, fino a condurla ad una assoluta anonimità, quasi astratta; dall’altro, proprio così facendo, “giudica” la stessa realtà con severità ed ironia. Dunque il rifiuto di ogni implicazione partecipativa ed emotiva nei confronti dell’immagine realizzata, che potremmo definire “verismo impersonale”, finisce con il coincidere con un atteggiamento inquietante e provocatorio nei confronti della realtà, quindi con ciò che potremmo chiamare “verismo giudicante”. Ecco a che cosa conduce la mano (elaborazione tecnica) e la mente (atteggiamento valutativo) dell’artista nel costringere la pittura ad essere “più vera del vero”.

Lucio Barbera